Dalla Farina di Mais … i Manfroni di Montagna
Se oggi la polenta di granoturco è un piatto che si mangia per “sfizio”, tanto per cambiare menù, agli inizi degli anni trenta, soprattutto in montagna, si mangiava da sola.
Se sulle nostre tavole la troviamo fatta a strati e condita con ragù di carne, con formaggi fusi, intinta in succulenti guazzetti o in ricchi brodetti di pesce, in passato era “sconsa” o “sorda” (forse dal latino “sordidus” che significa squallido o povero).
Le colline della Valle del Savio, agli inizi degli anni Trenta, erano molto popolate e, sia nei grandi casolari in cui vivevano famiglie patriarcali di contadini, boscaioli, carbonari e pastori, sia nelle piccole case in cui si stipavano numerosi nuclei dei senza terra che andavano “ad opera” presso agricoltori possidenti, c’era aria di festa quando la polenta era accostata a ricotta, raviggiolo o a semplici radicchi di campo conditi con una “croce” di olio e tanto aceto. Erano invece solenni i giorni in cui era “stesa”, quando cioè, appena cotta e ancora semiliquida, veniva versata sopra a un tagliere sul tavolo della cucina e appiattita con un mestolo di legno come se fosse una grossa sfoglia: perché il pranzo fosse pronto mancava solo un leggero strato di “sugo”. Si soffriggeva un po’ di cipolla aggiungendo, se era il tempo dell’uccisione del maiale, piccoli pezzetti di lardo; rosolato il tutto, si completava con un bel po’ di salsa di pomodoro. In qualche occasione “speciale” veniva messo anche un “trofeo”: al centro del tagliere, sulla cupola di polenta, un pezzo di salsiccia cotta in graticola. Quando tutti erano seduti a tavola, l’azdòra porzionava la “ruvida crema” fumante a spicchi, tutti uguali, con un filo di refe, e … insieme, si cominciava ad “attaccare” la propria fetta: all’inizio era una gara a “scottalingua”, poi diventava una corsa di resistenza. Chi giungeva per primo al centro della polenta, si aggiudicava la salsiccia. … continua